22/05/2002 |
riflessioni
Vi rompo di nuovo i coglioni con dei pensieri personali e me ne dolgo, ma credo possano essere utili a qualcuno.
Come forse sapete io sono affetto da una malattia lenta, ma mortale, da circa dodici anni (sembra quasi una battuta di spirito, nello stesso senso in cui potrebbe essere intesa la vita). Nel corso di questa stronza faccenda credo di aver lottato duramente, assistendo spesso ad episodi tragici che toccavano altri pazienti, e, come nella vita di tutti noi, subendo lutti e privazioni che fanno parte dell'esistenza umana.
Lasciando perdere gli specialisti del settore (medicina generale, dove vengono sistemati i lungo degenti, rianimazione e medicina d'urgenza, i reparti oncologici, etc. etc.) ho capito che nessuno di noi che viviamo in questa società privilegiata è più "abituato" (se si può usare questo termine) alla morte fisica.
Non la propria, per la quale vale sempre il discorso "finchè ci sono io non c'è Lei" e che rappresenta comunque una bella seccatura, ma quella altrui. AssisterVi è sempre stato e sempre sarà sconvolgente, ma oggi è ancora peggio: siamo soli come cani anche nella paura e nella disperazione, sia il morente sia i suoi cari.
Questa società ha materialmente obliterato la morte dalle nostre vite. Noi la vediamo al cinema o alla televisione e Vi assistiamo casualmente quando personalmente ci tocca in sorte un evento luttuoso che non possiamo evitare (ed anche in questi casi, se possibile, qualcuno provvede ad allontanarci per non farci assistere direttamente al decesso). Un tempo, in un altra epoca, la morte (chiamiamola "normale") avveniva in casa, in famiglia. La osservavano spesso i bambini, che , a volte, convivevano qualche giorno con il defunto. Vi partecipavano direttamente i parenti, che, in qualche misterioso modo, scomponevano l'orrore del coniuge e dei figli, riducendone l'impatto.
La morte era parte integrante e vitale dell'esistenza delle persone e, senza nulla levare alla "privazione" che ne consegue, costituiva un evento che non aveva carattere di anormalità. Poteva essere vissuta e sopportata, condividendo l'esperienza con i propri cari e , spesso, anche con estranei.
Ora fuggiamo non solo l'esperienza, in sè tragicissima, ma persino la vicinanza con coloro che ne vengono toccati. Sfuggiamo con cura i turbamenti che provoca nella nostra vita, cercando di cancellarne persino i ricordi visivi e uditivi, perchè esperienze troppo "grandi" per noi.
A volte scappiamo persino da coloro che moriranno (e non è il mio caso purtroppo: sono troppo sarcastico per essere afferrato o evitato), ma anche a me capita di scappare da qualche disgraziato moribondo che mi capita d'incontrare. Eppure, almeno io, dovrei essere preparato.
Non è così: per quanto mi sforzi di ridurre l'evento a fatto normale (il che comporta una faticosa ma ricca partecipazione), in fondo alla mente ritengo pericoloso (anche se doveroso) parteciparVi. Un po' come se la morte fosse una malattia contagiosissima e, lapalissianamente, "mortale" e fosse buona norma rispettare le regole della quarantena e dell'isolamento.
Ospedali, cliniche, media, educazione, etc. etc. hanno contribuito a rendere la morte "prossima" invivibile, mentre hanno reso la morte cinematografica o televisiva di milioni di disgraziati un evento che ci lascia del tutto indifferenti. Sembriamo commuoverci quando un commentatore o un anchor man televisivo intervistano un tizio a cui è morta la moglie o una signora che ha perso i figli drammaticamente. Ci addoloriamo e ci stupiamo per assassini stupidi ed efferati, pensando al crudele infierire su corpi inermi. "Corpi", appunto, non esseri umani! Non abbiamo memoria degli odori, dei profumi, dei reali aspetti visivi ed uditivi degli esseri umani che muoiono. E la nostra è una breve memoria senza un vero ricordo. Sembra che in quei casi persino l'omicida sia più vicino di noi alla povera vittima (e materialmente lo è stato ma, per uccidere, deve esserne distantissimo).
Straparlo e me ne scuso.
Fate conto che non abbia scritto nulla.
opinioni
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